(di Anna Cane)

E’ ironico, pungente, ma anche sensibile e profondo come nessuno. Don Mazzi ieri al Real Teatro Santa Cecilia di Palermo ha scosso gli animi e esortato tutti a riflettere sull’importanza dell’educazione. Ha parlato ai giovani e agli adulti, ha ricordato loro l’importanza del dialogo e dell’abbraccio. Non ha voluto chiamarla “lectio magistralis” ma una chiacchierata tra amici per condividere emozioni ed esperienze. E lui, 89 anni, fondatore di Exodus, da 50 impegnato in attività per il recupero dei tossicodipendenti, di esperienze ne ha avute tante. Con il sorriso negli occhi racconta la storia di una ragazzina di 12 anni, ballerina alla Scala di Milano, bellissima, che non si piaceva e che per tre volte aveva tentato il suicidio cercando di ingoiare i cucchiaini. “Quando disse a sua madre “Portami da Don Mazzi” – racconta al pubblico – ne rimasi colpito. Quando me la ritrovai davanti non sapevo cosa dire. Era bellissima e lei pensava di non esserlo. Le dissi solo “Torna lunedì” e lei giorni dopo, rispettò l’appuntamento e tornò. Parlammo. Parlammo solamente. E quando disse “Ho imparato tutte le mosse. Non berrò il mio quarto cucchiaino”, capii in quel momento che si era salvata. Io non avevo fatto nulla. Si era salvata da sola con la sua forza”. Ma accanto a tante belle storie, ce ne sono tante altre che rattristano gli occhi di Don Mazzi. Storie di ragazzi scappati dalla comunità, anime in pena che hanno scelto il suicidio. “Tante sere anch’io sono andato a letto piangendo – confessa con un nodo alla gola il prete che da irriverente diventa improvvisamente serio e triste – perché un ragazzo è scappato quando credevo di averlo cambiato. Prima di farsi aiutare i ragazzi, devono accettare e comprendere l’errore. Solo così possono salvarsi da soli. Io non faccio il prete, gioco con i ragazzi l’avventura della vita quando va bene e quando va male. Cerco di tirare loro ciò che di buono hanno, perché qualcosa di buono lo abbiamo tutti”. E il monito che dà, prima di salutare gli amici di Palermo, è quello di “vivere e non esistere”. “Abbiamo perso la gioia di guardarci negli occhi, di ascoltarci e di arrabbiarci anche. Dobbiamo vivere e non esistere. Dobbiamo imparare  noi  per primi e insegnare poi ai ragazzi ad apprezzare quello che siamo e quello che di meraviglioso c’è intorno a noi”. E ai tanti genitori, con tono austero dice: “I ragazzi devono guardarci in faccia e comprendere che noi siamo grandi. I padri devono fare i padri. Il loro ruolo è importantissimo, soprattutto nella fascia di età 10-20 anni, è lì che i ragazzi scoprono la ricchezza che hanno dentro. Il ragazzo ha bisogno dell’abbraccio del padre e della madre. L’abbraccio del padre al figlio, sopratutto quando sbaglia, il figlio non lo dimenticherà mai”.

Anna Cane